“Dove dimori?” (Gv 1,38): è questa la richiesta che viene spontanea nel cuore dei primi discepoli alla domanda rivolta loro da Gesù: “Che cosa cercate?”.
Questa domanda spinge i discepoli a guardarsi dentro, ad ascoltarsi e così fa anche con noi che leggiamo questo Vangelo. Ci accomuna tutti il fatto che dentro di noi constatiamo un anelito, un desiderio che ci muove dal profondo di noi stessi e che ci spinge ad agire. Ogni essere umano infatti cerca qualcosa anche se talvolta non sa nemmeno precisamente cosa.
Quei discepoli erano già stati preparati a questa ricerca. Erano stati con Giovanni il Battista, avevano certo coltivato le attese di tutto il popolo per la venuta del Messia e l’unica cosa che sapevano è che si erano sentiti spinti a seguire colui che Giovanni aveva indicato come “L’Agnello di Dio”. Se li avessimo interrogati su cosa cercassero prima di quel momento forse ci avrebbero risposto: “Vogliamo prepararci alla venuta del Messia”, “Vogliamo costruire una nazione libera dalla schiavitù”, “Vogliamo vivere felici, senza afflizioni”. Ma lo sguardo fisso, intenso, di Gesù che voltatosi verso di loro li guarda, li spinge più a fondo, nei meandri più profondi del loro intimo, nell’essenza di se stessi.
Guardandosi per un attimo dentro quei giovani uomini colsero infatti un intimo desiderio al fondo di loro stessi e chiesero: “Dove dimori?”, che precisamente significa: “Dove rimani?”. Questa domanda ci rivela che essi avevano toccato anche se per un attimo quel bisogno, comune a tutti noi, di rimanere, di trovare finalmente pace, di fermare per un attimo la corsa e sentirsi a casa con qualcuno e quindi di ritrovarsi.
La dimora, la casa, in fondo è il luogo dove ritroviamo o dovremmo ritrovare la nostra intimità con noi stessi, dove poggiamo da qualche parte le maschere che indossiamo per stare con gli altri, e ci rilassiamo, dove possiamo essere quello che siamo, certi di essere accolti.
È in particolare quando giunge la sera che tutti sentiamo il bisogno di trovare un luogo di riposo. Anche chi esce per andare in un locale o in un altro luogo per divertirsi, lo fa per trovare un posto dove ritrovarsi, stare bene, incontrare qualcuno, provare nuove emozioni, e anche lì, alla fine, sente che ad un certo momento deve ritirarsi. Non avere un luogo dove riposare provoca grandi squilibri nella persona e ancor di più non avere un luogo dove sentirsi capiti, accettati, voluti bene, valorizzati.
Potremmo allora interpretare la domanda dei due discepoli anche in questo modo: “Dove trovi tu le ragioni per rimanere, per non andartene in un altro luogo?”, “dove trovi cioè te stesso?”.
Gesù non risponde a questa domanda ma fa loro un invito: “Venite e vedrete”. È un invito a casa, un invito ad entrare nel luogo dell’intimità, tra le cose del suo mondo, tra le persone che costituiscono la sua vita. Ci sono cose che non possono essere spiegate solo a parole, occorre conoscerle direttamente, farne esperienza.
Ci chiediamo dunque: “Ma dove dimorava Gesù?” Sappiamo che non abitava propriamente in quel luogo dove Giovanni battezzava, ne pressi di Betania, bensì proveniva da Nazareth; quindi lì doveva esserci qualcuno che lo ospitava; possiamo immaginare che si trattasse di Lazzaro e delle sue due sorelle Marta e Maria. In quella casa si formava infatti una piccola comunità di amicizia, di amore e di pace dove Gesù si riposava. Lì poteva ritrovare se stesso così come da giovinetto aveva fatto rimanendo nel tempio a Gerusalemme e dove aveva risposto ai genitori che lo cercavano angosciati: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49).
È in questa stessa risposta che ci viene svelato, in fondo, dove Gesù rimane e trova se stesso e quindi dove occorre cercarlo: nelle cose del Padre, tutto ciò che lo riguarda e che è importante per lui, e in definitiva nel suo cuore. È proprio da qui infatti che egli proviene, come dice il prologo al Vangelo di Giovanni: dal “seno del Padre” (Gv 1,18).
Tutta la sua vita, per il Vangelo di Giovanni, è stata una testimonianza di questa relazione intima:
– “Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5,19)
– “…non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato” (Gv 8,16); “…non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 16,32)
– Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29)
“Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30).
Anche Gesù ha dunque un desiderio profondo: rimanere, restare in qualcosa di stabile, non stare quindi sospeso e tutto questo lo trova nella sua relazione con il Padre ed è qui che invita a rimanere e dimorare anche noi: “Venite e vedrete”. In un altro passo egli dirà infatti: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore (…). Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,2-3).
Gesù desidera prepararci un posto per farci entrare nella sua dimora e rimanere anche noi dove egli rimane: “nel seno del Padre”. È qui che egli desidera portarci. È in questa dimora che possiamo ascoltare la parola del Padre su di noi, questa voce mai interrotta dell’amore, che parla dall’eternità e dà vita e amore ogni qual volta che viene udita. Quando ci sentiamo guardati da Lui e ascoltiamo quella voce, sappiamo di essere finalmente a casa e non abbiamo nulla da temere.
Fermiamoci per qualche istante in contemplazione del quadro del Figliol prodigo di Rembrandt con l’aiuto delle riflessioni di Henri Nouwen. Il padre è dipinto con un manto rosso. Il manto rosso, con il suo colore caldo e la sua forma avvolgente offre u luogo ospitale dove è bello rimanere. Sembra una tenda che invita il viandante stanco a trovare un po’ di riposo. Ancor di più rappresenta le ali di un uccello madre che raccoglie i suoi pulcini. Ricordiamo il lamento di Gesù: “Gerusalemme, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali…” (Mt 23,37). Il Padre ci invita a dimorare al suo riparo, a riposare sul suo seno, ad avere fiducia: “Se anche una donna dimenticasse il suo bambino io non ti dimenticherò mai” (Is 49,16).
La nostra risposta a questo amore l’abbandono fiducioso come ha scritto Charles de Foucauld:
Padre mio, io mi abbandono a te,
fa di me ciò che ti piace.
Qualunque cosa tu faccia di me
Ti ringrazio.
Sono pronto a tutto, accetto tutto.
La tua volontà si compia in me,
in tutte le tue creature.
Non desidero altro, mio Dio.
Affido l’anima mia alle tue mani
Te la dono mio Dio,
con tutto l’amore del mio cuore
perché ti amo,
ed è un bisogno del mio amore
di donarmi
di pormi nelle tue mani senza riserve
con infinita fiducia
perché Tu sei mio Padre.
Nel quadro il fatto che il Padre tocca il Figlio indica la sua benedizione perenne. Come Padre Egli desidera offrire il suo amore di compassione non forzando, ma aspettando sempre, invitando sempre, sperando sempre di poter posare le sue braccia sulle spalle dei suoi figli. Il suo unico desiderio è di benedire. Benedire significa “dire cose buone”. Il Padre vuole dire, più col tocco delle sue mani che con le sue parole, buone cose sui suoi figli. Il padre vuol far loro semplicemente capire che l’amore che hanno cercato altrove, talvolta in vie così distorte, è stato e sarà sempre con loro.
Nelle mani del Padre confluiscono perdono, riconciliazione, guarigione e con il loro tocco sia il padre che il figlio trovano riposo. Le mani del Padre sembrano gli strumenti del suo occhio interiore. Dal profondo di se stesso, laddove abbraccia tutto il dolore umano, il padre raggiunge i suoi figli. Il tocco delle sue mani, diffondendo una luce interiore, cerca solo di guarire. Egli è il buon pastore che porta sul petto la pecora perduta (Is 49,11; Lc 15,4-7).
La mano sinistra, che corrisponde la piede calzato, è forte e muscolosa. Le dita sono aperte, coprono gran parte della spalla destra del figlio. Si può intuire una certa pressione del pollice. Oltre che toccare sembra sorreggere. La mano destra, corrispondete al piede nudo, è fine, posata con leggerezza e dolcezza. Vuole accarezzare, calmare, confortare. Mentre la mano destra protegge il lato vulnerabile del figlio, l’altra rinvigorisce la sua forza e il suo desiderio di migliorare la sua vita.
La parabola del figliol prodigo e tutto il Vangelo ci dicono che il luogo dell’incontro con questo Padre e quindi il posto che il Figlio Gesù ci ha preparato per incontrarlo, si trova in tutto il dolore vissuto, le delusioni, le malattie, gli insuccessi, ma soprattutto il dolore causato dai nostri errori insieme a tutto il dolore recato ad altri attraverso i nostri sbagli, le nostre testardaggine. Tutto questo può diventare il primo luogo della nostra comunione con Gesù, l’inizio del cammino che ci porta in Lui.
È in questo dolore che infatti abbiamo bisogno di trovare riposo, è in questa ricerca talvolta senza senso di ciò che non può soddisfare pienamente il nostro cuore e ci porta talvolta lontano che abbiamo bisogno di fermarci, di rimanere in qualcosa che ci dia sicurezza. È qui che abbiamo bisogno di sentirci dire ciò che il Padre dice del Figlio: “Tu sei il Figlio mio, l’amato; in te ho posto il mio compiacimento” (Lc 3,22).
Entrando in questa comunione con Gesù entriamo nella dimora del Padre: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Per questo il Vangelo di Giovanni, descrivendo l’esperienza dei primi discepoli, ripete con insistenza per due volte il verbo dimorare/rimanere e ne mostra così l’importanza per noi: “Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui” (Gv 1,39).
Nel momento che i discepoli scoprono la presenza di Gesù che passa nella loro vita, accettano il suo invito e fanno esperienza del rimanere con Lui, scoprono che è stato Lui che li ha cercati da sempre e che ha preso dimora per primo in loro. La comunione con Gesù è infatti pura reciprocità che nasce dal dono del suo dimorare in noi: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).
È a questa stessa comunione che Gesù più avanti ci invita nel discorso sulla vera vite: “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4). Potremmo tradurre questa espressione in questo modo: “Dimorate in me come io, da parte mia, dimoro in voi”.
Nel Vangelo della chiamata dei primi discepoli troviamo dunque già delineato il percorso che siamo invitati a compiere: seguire Gesù, lasciarsi interrogare dentro da Lui nel nostro dolore e nella nostra ricerca di senso e di bene, formulare la nostra domanda personale e comunitaria, accettare il suo invito, conoscere e fare l’esperienza di comunione con Lui nel cuore del Padre e da qui scegliere di rimanere in quell’amore, lasciare cioè che Gesù dimori in noi attraverso un impegno costante di vita:
“Come il Padre ha amato me anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i mei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (Gv 15,9-10).